Francesco Carucci, l’uomo dietro la grafica di Nvidia: “Il segreto? Sapere bene quello che fai”

A sei anni scrive righe di codice. A sette, al suo primo tema alle elementari, titolo: “Cosa hai fatto nel weekend?”, non racconta una storia: scrive un programma. Lo ricopia a mano e lo consegna alla maestra.
Oggi, a 52 anni, Francesco Carucci lavora in Nvidia, l’azienda tecnologica con la maggiore capitalizzazione al mondo, guidata da Jensen Huang: CEO carismatico, capace di trasformare una società di schede grafiche in uno dei motori della rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
Si occupa di grafica e rendering, guida un team di ingegneri e sviluppa strumenti per migliorare le performance dei videogiochi. Un ruolo chiave in un’azienda in cui, secondo alcune stime su Blind, meno dell’1% di chi si candida riceve un’offerta. Eppure, a lui è bastata una settimana.
«Il mio è un mestiere che oggi fanno in pochissimi. A scrivere rendering engine ad alto livello saremo un centinaio. A fare ottimizzazione grafica su mobile, forse dieci in tutto il mondo».
Per arrivarci, Carucci ha attraversato le big tech più influenti della storia: ha lavorato quattro anni a Microsoft, sette ad Apple («quando mi hanno chiamato, Steve Jobs era ancora vivo»), quattro a Google, dieci mesi a Meta, due anni a Samsung. E ora Nvidia.
E se gli chiedi qual è il suo segreto e cosa ha imparato lungo il cammino, non esita: «Don’t be an asshole. Non essere uno stronzo».
Poi aggiunge: «Ci sono due modi per fare carriera nelle aziende tech: sai quello che stai facendo e se sei bravo le cose succedono. Oppure non lo sai, ma sai fare bene politica».
Nato a Taranto, cresciuto a Imperia, Carucci studia ingegneria del software a Torino. Da bambino quando gli chiedono cosa vuoi fare da grande, risponde: “videogiochi”. Dopo una gita scolastica a Brighton decide che un giorno vivrà in Inghilterra. E così è stato.
Inizia a lavorare nel mondo dei videogiochi molti anni fa, scrivendo codice per il rendering e grafica in tempo reale. I primi due titoli li sviluppa per Lionhead Studio, acquisita da Microsoft, nel Regno Unito. Poi si trasferisce in Germania, dove lavora a Crysis2 e conosce la sua futura moglie, una fotografa georgiana. «A un certo punto mi sono stancato di notti in bianco passate in ufficio. L’ho fatto per quindici anni. Così ho mandato un curriculum ad Apple». Che lo assume in un giorno. «Sono atterrato giovedì mattina a Cupertino, ho fatto tutti i colloqui in giornata e la sera stessa mi hanno fatto un’offerta. Ho chiamato mia moglie in Germania e le ho detto: “Ci trasferiamo in California”».
Entra subito su un progetto che ancora non esiste per il mondo: l’Apple Watch. Resta chiuso negli uffici a lavorare in segreto, mentre fuori nessuno sa di che si tratta.
«Non puoi nemmeno parlare con i tuoi familiari, altrimenti ti licenziano. Quando mia madre mi chiedeva: “Ma cosa fai esattamente?” le rispondevo: “Faccio cose”». Un giorno, il figlio, che all’epoca ha un anno e mezzo, entra in ufficio. Ed è uno dei primi che vede l’orologio prima che venga annunciato.
«Ho scritto tutte le interfacce analogiche dei primi tre modelli. Poi c’era Minnie [uno dei possiibili quadranti impostabili per l’Apple Watch ndr]. Te la ricordi? Mia nipote Emma la adorava. Così, in due giorni di lavoro chiuso in una stanza, ho scritto il codice e l’ho consegnato poco prima della deadline. È finita dentro l’update ufficiale».

Carucci si occupa di ciò che si chiama real-time rendering. Vuol dire fare grafica in tempo reale, scrivere codice che permette a un’immagine complessa di apparire su uno schermo in modo fluido, pulito, leggero. Significa ottimizzare ogni linea, ogni calcolo. «Se un videogioco consuma meno batteria, l’utente gioca di più e si monetizza di più».
Negli anni Novanta, quando inizia, non esistono tool come Unity o Unreal Engine.
«Se volevi fare un videogioco, dovevi scrivere tutto da solo. Nel ’94 non c’era niente. Non c’era Internet, nessuno ti spiegava come si faceva». È così che sviluppa il suo modo di pensare, legato alla logica visiva. Con il tempo smette di sviluppare giochi in prima persona e inizia ad aiutare gli altri a farlo. Succede in Google, dove viaggia per il mondo supportando team diversi: Cambridge, Milano, Mosca, Shenzhen, Tokyo. «In Corea non scrivevo codice, in Cina sì. Dipendeva dal team. Alla fine si trattava sempre di farli girare meglio, più veloci, con meno sprechi».
Dopo Google arriva Meta. «Mi hanno offerto un sacco di soldi. Non potevo rifiutare». Il lavoro è interessante: si occupa degli avatar. «Il giorno dopo che li abbiamo lanciati, Zuckerberg ha postato un’immagine con il suo nuovo avatar. Gli ho risposto: you’re welcome, Zuck».
Da Meta a Samsung. «È un posto “meraviglioso, si stava benissimo, ma non c’era niente da fare». Così manda il curriculum a Nvidia, una settimana di colloqui e a dicembre 2024 entra. Oggi guida un team di ingegneri. «Spero di rimanere qui fino alla fine».
Public speaker, fotografo, artista. Eppure da ragazzino gli dicevano che non sapeva disegnare. A scuola lo prendevano in giro: «Mi dicevano: non sarai mai un artista, sai solo fare matematica» Avevano torto. Oggi Francesco Carucci fotografa paesaggi e vulcani. «Cosi non mi annoiano e non devo stare ad ascoltarli». Quando lo intervistiamo si trova alle Hawaii, in vacanza con moglie (anche lei fotografa) e con i figli, proprio per fotografare il vulcano Kilauea.

Espone in diversi paesi, vince premi ovunque e parla con naturalezza di visual reasoning, il ragionamento visivo. «Lo trovo molto bello È lo stesso principio che guida la grafica in tempo reale e che ha a che fare con la fotografia: mettere insieme elementi, dare ordine al caos visivo».
E l’Italia? Tornerai?
«Lo dico sempre: non avrei voluto nascere in nessun altro posto. Abbiamo una cultura meravigliosa, che tutto il mondo ci invidia. E quando fai i colloqui, capisci quanto conta. Abbiamo il cibo più buono del mondo. Pensa a quanti miliardi di persone non hanno mai mangiato le lasagne in vita loro. Abbiamo il caffè espresso: mi sono preso una macchina da caffè portatile, macino i chicchi e me lo preparo ovunque. Ma vivere e lavorare in Italia… no, non riesco. Dopo la pandemia abbiamo pensato di trasferirci e prendere casa a Como, vicino a mio fratello. Abbiamo cercato una scuola. Ma dopo 45 minuti dal nostro arrivo, ho detto: non ce la faccio».
Se cerchi di capire perché, ti risponde così: «Niente di personale, ma gli italiani mi innervosiscono. A un certo punto della mia carriera ho lavorato a Milano, nella sede italiana di una big tech. Era estate, andavo in giro con i pantaloncini. Appena mi vedevano, mi parlavano tutti in inglese: non potevo essere italiano, se portavo i calzoncini al lavoro. Pregiudizi. La gente attorno a me parlava spesso male dei colleghi che in quel momento erano a casa. In California, a nessuno verrebbe in mente di fare una cosa del genere».
E poi ci sono i meeting. «Qui inizi alle 9 e alle 9:30 hai finito. Quando facevo i meeting con gli italiani, alle 9 non si sapeva nemmeno chi ci sarebbe stato. E poi quando tutti erano presenti, magari si continuava a parlare fino alle 11».
Carucci ha due figli. Il più piccolo ha già deciso che farà l’ingegnere. «Mi dice: “Io sarò un nerd e lavorerò a Nvidia”. Il più grande a due anni già leggeva, prende voti altissimi nei test di matematica, eppure crede di non essere bravo. Vorrei solo che capisse che lo è. Poi facciano pure ciò che vogliono».
Ai più giovani, dice: «Diventate molto bravi in quello che vi piace fare. La famosa regola delle 10.000 ore di pratica per diventare esperto in qualcosa. Poi non so se funziona proprio così. Ma so che se c’è qualcosa che ti piace, e vuoi farla per lavoro, devi passarci sopra tantissimo tempo».
La Repubblica